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Mouna Nada Yana- Yoga, Meditazione, Salerno, cineforum, zen, cristiana papa, insegnante yoga e meditazione, musicoterapeuta

Dal cineforum dell' 11-02-2015

“The life of the master Dogen”

Riflessioni di Cristiana Papa

Il film racconta la storia vera di Eihei Dogen, il monaco buddhista giapponese che dedicò la propria vita alla ricerca e alla divulgazione della vera essenza del buddhismo, fondando la scuola buddhista giapponese Zen Sōtō.

Non stiamo certo qui ad occuparci di religione ma piuttosto a cogliere cosa possiamo utilizzare di questi insegnamenti, nella pratica che facciamo, nell’epoca in cui viviamo, nei contesti del nostro quotidiano, nella nostra vita.

Ed è proprio questo l’insegnamento del buddhismo zen: la storia di Dogen, pur se attraverso una ferrea disciplina della forma, ci invita a ricercare e rinnovare l’essenza della pratica più che la forma stessa.                             

Ogni disciplina ha una sua forma che serve a rintracciarne l’essenza ma, spesso ci si ferma ad aderire alla forma dimenticando l’essenza. Nella trasmissione da maestro a discepolo questo appare chiaramente alla fine del film. Nella vera ricerca dell’essenza la forma cambia, diventa secondaria perché semplice strumento dell’Intento. Anzi, il cambiamento della forma rappresenta il senso di una sincera ricerca che non si ferma alla “riproduzione” automatica di chi ci ha preceduto e insegnato. Se ci si connette all’essenza tutto può essere utilizzato come strumento di ricerca e di pratica e tutto è sempre nuovo e creativo. L’essenza può cambiare la forma; la forma si trasforma nel tempo per incarnare l’essenza nell’individuo che ricercala propria forma. E così cambia il “Buddhismo” che si adatta alla nuova forma ma non modificandosi nell’essenza. Non è rinchiudendosi in un tempio che si pratica lo Zen, ma nella sincera ricerca della sua essenza nei tempi, nei luoghi, con le persone e nella vita che ci è stata data.

Ci si può chiedere a questo punto: qual’è l’essenza della pratica dello zen?

L’essenza della pratica zen è che non c’è differenza tra la vita e la pratica. La pratica è la vita stessa, così come, proseguendo in questo itinerario, si scopre che lo strumento coincide con il fine. E’ molto semplice e allo stesso tempo complesso. E’ per questo che ci si siede formalmente a praticare. Tutto questo non può essere “capito” dalla mente ma sperimentato attraverso la pratica. L’esperienza nella pratica è elemento imprescindibile. La pratica è ciò che fa cadere pian piano tutti i concetti sulla vita e ci permette di “essere la vita”.

L’essere umano è continuamente coinvolto in pensieri, stati d’animo, idee che fanno da schermo alla vita così com’è. La sua “percezione” della realtà e quindi di sé, degli altri, del mondo e della vita in generale è sagomata entro certi confini che gli danno un senso d’identità. Gli permettono di dire “questo sono io”. Solitamente in contrapposizione a qualcosa che gli permette di differenziarsi e dire “questo non sono io”.  Quindi “io sono” entro certi confini. Entro ciò che nel tempo ho conosciuto e che mi ha plasmato in un certo modo. E mi “riconosco” nell’opposizione a ciò che “non sono io”; e mi dibatto nella vita per affermare ciò che “io sono”, inconsapevolmente. E quell’io sono mi dice cosa mi piace e cosa non mi piace; cosa è giusto o sbagliato; cosa fare o non fare; mi guida nel prendere una strada piuttosto che un’altra. E tutto questo se da un lato è sacrosanto, perché è utile avere un proprio senso di identità che ci contraddistingue e ci dà un senso del nostro procedere, evolvere e realizzarci nella vita così come pure ci protegge da ciò che può essere nocivo alla propria salute ed integrità, dall’altro ci limita sempre dentro gli stessi confini, dentro un “punto di vista”; così facendo il copione della propria vita è già scritto.

Questo “io” con i suoi confini, rimanendo inconsapevole, è la causa della sofferenza. E’ causa della sofferenza perché, in buona parte, non è reale ed è basato su percezioni falsate e illusorie che guidano il proprio essere al mondo in un modo che non potrà mai essere soddisfatto. Dico “in buona parte” perché è pur vero che se quella sua percezione esiste, fa parte della “sua” realtà, quindi esiste ed è in parte vera. Non ci rimane allora che studiarlo questo “io”, riconoscerlo, accogliere la sua ragione d’essere e allo stesso tempo, gradualmente, trascenderlo attraverso un ampliamento di coscienza. Attraverso una visione più neutra e meno condizionata.

Perché l’essenza della pratica è vedere le cose così come sono. Semplicemente questo. “Occhi orizzontali, naso verticale” dice Dogen nel film.

Per arrivare a questa semplicità bisogna inevitabilmente attraversare tante identificazioni e disidentificazioni con le immagini di sé che si alternano nel percorso di pratica e di vita. Ecco perché è utile in un gruppo di pratica esporsi, mostrarsi attraverso il proprio punto di vista.

Tutto è racchiuso in questo testo:

Dal film

"Studiare la Via del Buddha è studiare il sé.

Studiare il sé è dimenticare il sé.

Dimenticare il sé è essere illuminati da ogni cosa”

Essere illuminati da ogni cosa è liberarsi”

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